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UNA FUGA IN AVANTI

 

Adolfo Francesco Carozzi

 

 

L’orizzonte veleggia lungo il golfo… così inizia una poesia di Libero de Libero dedicata a Paulucci in occasione della personale tenutasi presso la Galleria dello Zodiaco di Roma nel 1953, e così mi piace pensare che in queste poche parole si possa ritrovare molto della poetica di Paulucci.

Si, il veleggiare richiama alla mente le sue tante marine, i suoi indimenticati ed indimenticabili paesaggi liguri, non in una statica istantanea fotografia ma in un incessante movimento così come la sua continua ricerca. Il golfo poi presuppone un confine di terra, nel nostro caso di un entroterra un po’ ligure e un po’ piemontese al confine con le Langhe, ed ancora si rivelano i suoi scorci, le sue vedute, i suoi panorami come appunti di viaggio; l’orizzonte poi rimane un confine da oltrepassare, da superare, da scoprire, da andare oltre... per fare una fuga in avanti.

Certamente non si esaurisce tutto qui il contenuto dell’attività di Paulucci: rimangono le immagini di Torino, le nature morte, i ritratti, le scenografie, ma sicuramente nell’immaginario collettivo il pittore della luce e del colore più si lega alla natura del paesaggio marino/collinare.

Di fronte alle sue opere si ha una certezza: è la pittura la vera passione di Paulucci. Dagli oli degli anni Venti a quelli degli anni Novanta passando per i guazzi, gli acquarelli, i pastelli, l’atto del dipingere rimane l’azione della sua vita.

A proposito di confini da superare, di limiti da oltrepassare, di asticelle da scavalcare, netto è lo scatto, violento e veloce è il passaggio, straordinario è il risultato. Siamo fra il finire degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, quando Paulucci percorre la strada intrapresa da molti artisti in quel periodo, aderendo in modo personalissimo a quel modo di essere informali.

Con opere da qualcuno indicate come astratte/concrete o più semplicemente non formali, ovvero non più in sintonia con quel modo di esprimersi proprio del novecento ormai tramontante, Paulucci realizza una serie di opere che pur mantenendo la sua inconfondibile cifra si presentano decisamente diverse, innovative e sicuramente in sintonia con il tempo.

Ma andiamo con ordine.

Paulucci, nato nel 1901 e vissuto fino al 1999, si può dire abbia rappresentato l’intero Novecento torinese.

Dopo il soggiorno a Parigi degli anni Venti quando, formato il gruppo dei Sei Pittori di Torino, rompe con gli schemi troppo rigidi, pronto a squarciare le prospettive con una pittura più ariosa, piena di fragranza e lievità, e dopo il soggiorno romano degli anni Trenta, quando si propone con una tavolozza dai toni caldi con un impianto vagamente cezanniano, Paulucci subisce nel dopoguerra ancora una volta il fascino del rinnovamento e della ricerca, lasciandosi coinvolgere dall’onda informale con soluzioni tra l’astratto e il concreto. Torna poi nei decenni successivi ad una personale ed allegra figurazione con «piena felicità cromatica neonaturalistica» (M. Rosci), frutto indiscutibile delle precedenti esperienze attraverso i paesaggi delle marine di Levante e delle colline delle Langhe, spesso inondati da luminosi riverberi, «caratterizzata da un ritorno alla cultura di partenza, postimpressionista e fauve, o dalla autocitazione, ma insieme testimonianza di una eccezionale vitalità» (G. Giubbini).

Nel periodo centrale del secolo (anni ‘50/’60), ancora sotto l’influenza degli Impressionisti, dei Fauve e sull’onda del postcubismo (in lotta con un conservatorismo classico di una cultura chiusa e legata alla tradizione accademica dell’Albertina), sotto la spinta delle novità di oltreoceano e del fermento postbellico degli ambienti romani, milanesi, bolognesi, napoletani, fiorentini, anche Torino diventa protagonista del rinnovamento dell’arte del dopoguerra. Dopo la costituzione del Gruppo del MAC torinese, emergono infatti significative esperienze di ricerca di artisti come Ruggeri, Saroni, Soffiantino, Moreni, Assetto, Scroppo, Spazzapan, Carena, Gallizio, Carol Rama, Parisot, Galvano, Gorza, Rambaudi, Davico, Piacenza, Simondo, Becchis, Lerda, Carmassi, Levi Montalcini, Merz, Cherchi, Garelli, Mastroianni, con sorprendenti e personalissime interpretazioni del clima informale ormai dilagante. E Paulucci?

Anche il nostro Enrico, come già abbiamo accennato, partecipa attivamente a questo nuovo modo di rappresentare una realtà spesso direttamente filtrata dal personale sentire, con un continuo riferimento all’immagine stessa della natura. Si sofferma su questo problema di lettura delle opere di Paulucci anche Giulio Carlo Argan che, in occasione della storica mostra alla Galleria La Bussola di Torino nel 1962, sostiene che la pittura di Paulucci rimane figurativa benché gli oggetti non siano più riconoscibili, poiché il valore che interessa Paulucci non è il valore dell’oggetto, e che comunque la sua «rimarrà pittura di linguaggio, preoccupata soprattutto di stabilire una comunicazione umana, di rompere il grigio della solitudine, d’indicare certe condizioni, le migliori possibili, di coesistenza».

Se a questa considerazione si aggiunge la posizione di Maurizio Calvesi, che sostiene che un‘opera per essere considerata informale non deve necessariamente essere senza forma ma piuttosto che il termine informale va inteso nel più ampio significato letterale, ovvero che non è un sinonimo di informe ma vuol dire diverso, non formale, e se si analizza la produzione di alcuni artisti italiani in quegli anni considerati informali, come per esempio Morlotti, Chighine, Moreni, Mandelli, Vacchi, Fasce, Saroni (solo per citarne alcuni), ricca di riferimenti al paesaggio e comunque protesi in una ricerca dei segreti della natura (ne sono testimonianza anche i titoli affidati ai lavori dai propri esecutori), si può ben comprendere perché anche le opere di Paulucci di questo periodo, pur facendo specifico riferimento al paesaggio, possano essere considerate informali.

A tal proposito osserva Rita Selvaggi: «…nel dopoguerra matura, invece, nuove esperienze che lo inducono ad aderire all’espressionismo astratto e poi, in un secondo momento, all’Informale e che portano a compimento un processo di rilettura in chiave di introspettiva del dato naturale. Tuttavia, anche in questa fase, l’artista non rinuncia né alla lirica musicalità del colore né alle sue cadenze ritmiche. Anzi, questa nuova recuperata spazialità, componendo i piani e irrobustendo l’intelaiatura disegnativa, trasforma il colore da valori di effusione tonale ad esempi di accentuazione timbrica».

«E’ una pittura...», scrive invece Gianfranco Schialvino sempre riferendosi alle opere degli anni Cinquanta, «...che si regge sul timbro, sul rapporto cadenzato di linee rette e curve, sul colore e la sua mancanza, su una musica sincopata che lampeggia frammenti di realtà in un caleidoscopio di allusioni ottiche. In una inquietudine che tocca anche la materia del colore, nella ricerca, attraverso la stesura di zone grevi e dense, di un contatto anche fisico con la natura rappresentata».

Nell’analizzare il percorso artistico di Paulucci, anche Giorgio Di Genova nella Storia dell’Arte Italiana del ‘900 così scrive della poetica della seconda metà degli anni Cinquanta: «Paulucci rompe l’ordito ragnatelato delle sue composizioni portuali per portare in primo piano certe nuove esigenze di incastro cromatico già affiorate nel ‘54/’55, con qualche concessione a certo gestualismo dinamico, che sarei tentato di definire vorticismo informale (Girandole di colore, 1954). È il periodo delle esuberanze astratto-concrete; è, cioé, il momento dell’allontanamento dai riferimenti al dato reale per privilegiare i ritmi, le memorie, i sentimenti assorbiti dall’istinto pittorico di fronte agli spettacoli della natura, com’è in Valle cielo rosso del ‘57, in Paesaggio senese e Costiera rossa del ‘58, in Sera in campagna e Costiera gialla del ‘59, ed altri dipinti esposti in quell’anno all’VIII Quadriennale e che documentavano il personale risentimento del clima informale diffuso in quel giro di anni in Italia. È proprio sulla scorta di tali adeguamenti che Paulucci conquista la libertà necessaria per allontanarsi dal dato reale, a cui prima e dopo egli ha fatto riferimento. Il culmine di tale libertà viene toccato nel biennio 1960/61 con Rosso e nero (Attracco), Apparizione sul fondo 1, Liguria... Comunque, anche nel suo momentaneo attraversamento del lessico informale, Paulucci non rinnega la sua esuberante gaiezza pittorica, con il costante appoggiarsi sui maestri da lui prediletti...».

«Negli anni ’50...», commenta invece Rino Tacchella, «...la struttura plastica della sua pittura si dilata, assume l’aspetto di un insieme di tasselli dello stesso o di altri colori, che insieme concorrono a comporre l’immagine. Una breve immersione nella stagione informale, o meglio nel naturalismo informale, guida il ritmo e gli addensamenti delle pennellate. Materia e forma divengono una cosa sola; amalgamata da una pasta cromatica vellutata e luminosa, la sagoma dei diversi elementi perde i suoi contorni, mescolandosi con l’atmosfera e l’ambiente naturale».

Marco Rosci, infine, nel sottolineare che il tema delle Barche nei porticcioli liguri accompagna da sempre la felicità pittorica di Paulucci, scrive a proposito delle opere degli anni Cinquanta «…il modulo delle Barche (la mostra alla Bussola nel 1951; le presenze alla prima e seconda Biennale di San Paolo del Brasile, 1951 e 1953) segna il culmine del processo: la gabbia grafica, in un rapporto quasi seriale, fra rette e curve, ritma le ricchissime variabili timbriche delle zone di colore puro, limpido fino alla trasparenza. L’evocazione fantastica di Festa Notturna, l’opera più impegnativa presentata alla XXVII Biennale del 1954, è già all’estremo di questo processo, coniugando il Picasso gioioso e «liberato» di Cap d’Antibes al lirismo onirico di Klee, con un personalissimo risultato che Tapiè di quegli anni avrebbe definito «autre». In effetti, già un anno dopo esploderà la sontuosa pirotecnica «tachiste», evocante fra sogno e memoria rocce, mare e cielo di Liguria... La fase di implosione-esplosione dei «paesaggi» gestuali e delle matrici prosegue fino agli inizi degli Anni ‘60, facendo perno sulle opere esposte all’VIII Quadriennale del 1959...».

Sono dunque opere, quelle di questo periodo, che non rinnegano i suoi due grandi amori: la figurazione e la pittura. Esse costituiscono ancora le rotaie parallele su cui corre la sua ricerca, alimentata dalla grande passione per la materia. Una materia pittorica che esprime la profonda conoscenza dell’Artista del colore e della luce, una materia che si adagia sulle forme ricorrenti dei suoi temi più cari: i paesaggi.

Ne sono testimonianza i titoli come Valle Verde, Rada, Passeggiata, Vele, Spiaggia, Marina, dove l’immagine del quadro non potrebbe avere un altro titolo, non potrebbe ammiccare ad un’altra composizione se non a quel soggetto indicato. È dunque un‘immersione nella natura? In quella natura ultima teorizzata da Arcangeli? Vi è senza dubbio un richiamo a quel mondo, ma quello di Paulucci è ancora più personale ancora più ligure/piemontese, forse più vicino ad un Birolli o ad uno Spazzapan ultimo periodo.

La tavolozza è ricca, i giochi cromatici tolgono il respiro, si ha la sensazione di non riuscire a percepirli tutti, si ha la paura di perderne qualcuno, senza accorgersene si osservano quasi trattenendo il respiro, un’apnea gratificante, appagante, che ti lascia quasi sbalordito ma che però ti spinge a cercarne un altro e poi un altro ancora... un’overdose di colore. La vista è spesso aerea, oggi si potrebbe dire che è un’anticipazione delle viste dall’alto proposte dalle immagini satellitari, rielaborate con uno sgranamento pixellare tale da appiattire la realtà in una sorta di planimetria dove i colori distinguono gli elementi delle composizioni urbane, marine e collinari. Giochi cromatici accesi nei decisi contrasti, pronti a segnalare la presenza di un particolare riconducibile ad una realtà spesso ricordata nei titoli proposti.

Lo stesso autore, riparlandone in anni successivi, alla domanda se questo periodo fosse stato un «fuoristrada» con determinazione lo nega ma, forse per modestia, pensa ad una strada chiusa, poichè non ha avuto consistenti sviluppi, anche se ne ha lasciato spesso il segno, tanto che ben diverse sono risultate le opere successive rispetto a quelle precedenti. Credo comunque che non sia stata una strada senza uscita, una di quelle segnalate dall’inconfondibile cartello, ma piuttosto un tratto del percorso, una parte del cammino affrontato con la consueta coerenza espressiva, paragonabile alla descrizione di un viaggio lungo il quale mutano i paesaggi, le viste, gli scenari, perché diverse sono le condizioni che li caratterizzano, che mantiene però un sottile filo conduttore che ne ricuce le differenze, quando il racconto è dettato dalla sensibilità dello stesso viaggiatore. Ecco, Paulucci ha attraversato quel periodo, la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, e con la sua straordinaria sensibilità ed abilità è riuscito a lasciarci una serie di opere, di ricordi, di emozioni filtrate con gli occhi di chi sa capire il proprio tempo, di chi sa essere sempre protagonista in ogni momento.

La secolare tradizione della cultura italiana ha fatto il resto. La luce e i colori mediterranei, l’abilità pittorica raffinata in Accademia, la decennale esperienza, hanno costituito una miscela esplosiva che aspettava di essere innescata dal detonatore della libertà espressiva propria di quegli anni in Italia.

La copertina del catalogo della Mostra ben evidenzia il sottotitolo della rassegna: «Una fuga in avanti». In essa infatti è riprodotto il mosaico in vetro realizzato dal mosaicista Righini, e oggi posizionato nella tomba di famiglia a Montegrosso d’Asti, dove riposa anche Enrico. Il mosaico riproduce l’opera di Paulucci Liguria del 1961 (peraltro pubblicata sul prezioso catalogo della mostra tenutasi presso la Galleria La Bussola di Torino del 1962) con una singolare esaltazione della materia, che assume quasi un valore tridimensionale nello spessore marcato delle tessere e con un’ ineguagliabile luminosità dei colori, grazie alle trasparenze del vetro, declinati nelle tonalità del blu, dell’ azzurro e del turchese. Una «marina» attraversata da una nave blu cobalto che solca il mare infinito dell’eternità, alla ricerca forse dell’immortalità propria dell’opera d’arte e del suo creatore. Anche in questa immagine si percepisce uno slancio oltre il presente nell’ignoto futuro, non con malinconica rassegnazione o profonda tristezza, ma piuttosto con spiccata curiosità e spensierata allegria segnalata dagli inserti rosso fuoco protagonisti al centro dell’opera.

Considerata non solo cronologicamente baricentrica la sua esperienza pittorica degli anni 50’ e 60’, l’antologica dedica la grande sala centrale alle opere di quegli anni, mentre lateralmente da una parte sono visibili i lavori realizzati nei primi decenni della sua attività e dall’altra quelli degli anni successivi fino alla fine del secolo scorso. Inoltre alcune pareti di una sala sono dedicate ai guazzi realizzati per le scenografie di alcune opere teatrali.

 

 

Fonti bibliografiche

 

• Catalogo XXVII Biennale di Venezia 1954 - Testo di Giuseppe Marchiori - Edizioni: Lombroso Editore, Venezia 1954

 

• Paulucci - Testo di Giulio Carlo Argan - Edizioni: Galleria La Bussola, Torino 1962

 

• L’Informale in Italia fino al 1957 - Catalogo Mostra Livorno 1963 - Testo di Maurizio Calvesi - Edizioni: De Luca Editore, Roma 1963

 

• Paulucci - Catalogo Mostra Palazzo della Società Promotrice delle Belle Arti al Valentino, Torino 1979 - Testi di Albino Galvano, Enrico Paulucci, Alfonso Gatto, Aldo Bertini - Edizioni: Regione Piemonte, Torino 1979

 

• Enrico Paulucci. Plein air - Testi di Lionello Venturi, Alberto Moravia, Angelo Dragone, Paolo Levi, Luigi Carluccio, Federico Riccio, Guido Ballo, Marco Rosci, Italo Calvino, Filiberto Menna, Renzo Guasco - Edizioni Santacroce, Firenze 1982

 

• Enrico Paulucci. Dal 1929 - Catalogo Mostra Palazzo Bianco e Palazzo Rosso, Genova 1983 - Testi di Marco Rosci, Giudo Giubbini - Edizioni: Comune di Genova, 1983

 

• Enrico Paulucci. Quando Rapallo... - Catalogo Mostra Antico Castello sul mare, Rapallo 1992 - Testo di Giorgio Calcagno - Edizioni: Comune di Rapallo/Ge, 1992

 

• Arte in Italia 1935 -1955 - Testo di Rita Selvaggi - Edizioni: EDIFIR Firenze, 1992

 

• Storia dell’Arte Italiana del 900. Generazione primo decennio - Giorgio Di Genova - Edizioni: Bora, Bologna 1996

 

• Enrico Paulucci - Catalogo Mostra Loft Art, Alessandria 1998 - Testo di Rino Tacchella - Edizioni Loft Art, Alessandria 1998

 

• Paulucci. La seduzione della pittura - Catalogo Mostra Casa Felicita, Cavatore (AL) 2009 - Testo di Gianfranco Schialvino - Edizioni: Smens Vecchiantico, Cavatore/Al 2009

 

• Enrico Paulucci. Segno e colore - Catalogo Mostra Galleria Accademia, Torino 2010 - Testo di Ugo Nespolo Edizioni: Galleria Accademia, Torino 2010