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IL TEMPO, LA LUCE, IL COLORE DI PAULUCCI

 

Angelo Mistrangelo

 

 

 

 

Paulucci invece scoprì il «corsivo», il parlato

di una pittura felice e aperta al colloquio

naturale; e, sin dagli inizi, il suo volgere

all’astratto per campiture, per grafia, per

fluide morbide fantasie memoriali, per atmosfere

assorbenti segreti spazi del segno era già un

valersi di una ideazione visibile, estroversa...

Alfonso Gatto

 

 

Le parole del poeta Alfonso Gatto evocano la stagione di Enrico Paulucci, la sua personalità poliedrica e vivace, la visione di una realtà che unisce la natura alla luce, i luoghi delle sue frequentazioni agli incontri letterari e artistici: «..amo ritrovarmi in questi luoghi ormai quasi cancellati... Il gentile lungomare di Rapallo che il cemento ha distrutto, dove passavano Ezra e Camillo, Montale, Kokoschka e Crommelynck, Falqui e la Gianna Manzini... l’alberghetto da due lire dove la sera accompagnavo Sbarbaro innamorato... le colline di Sant’Ambrogio «..il sagrestano di San Pantaleo suona è mobile al carillon..»; l’osteria di Santa dove gli ultimi marinai veri mi raccontavano di terzaruoli sui pennoni dei grandi velieri nelle tempeste del Nord...».

Impressioni di un tempo che appartiene alla vicenda umana e pittorica di Paulucci, ricordi e «fantasmi del passato», sensazioni di un dialogo continuo e inesausto tra la propria indiscutibile storia e la capacità di trasmettere emozioni e memorie e testimonianze di una ricerca in cui «ricostruisce un mondo che è vero solo perché è inventato, ma dove il mosaico cromatico non lascia d’un filo la sicura consistenza delle cose» (Federico Riccio).

Vi è in questo percorso il senso di una pittura scandita dalla successione delle immagini, dalla costruzione della struttura compositiva, dal colore, che diviene l’assoluto artefice del soggetto interpretato con la consapevolezza di fissare un attimo dell’esistenza: «Eppure mi piace tanto pensare a quel certo mare blu di quelle meravigliose mattine siciliane, così assolute e mitiche, con quel senso di antico e di sempre che ci consola anche se fa parer la nostra piccola vita una cosa incerta e rapidamente consumata...».

L’immagine diviene racconto, sensazione e documento, esercizio per fermare la luce, per esprimere la libertà di una «scrittura» che svela l’incanto di spazi e di illusioni luministiche, in una sorta di itinerario segnato dalle intuizioni di Italo Calvino:« Paulucci va cercando al di là dell’eleganza del suo gioco musicale una verità più fonda. Si stacca dalla spiaggia e va cercando le ripe scoscese e faticate dell’entroterra ligure, con quadri dalle superfici cromatiche fortemente contrapposte, dai tagli duri. Non è il dramma in atto che cerca, neanche qui: ma il dramma dominato, fatto eredità ed esperienza, calore ed ombra in noi, così come la sua felicità è quella già avuta, quella che già ci è dietro le spalle, ma che continuiamo impalpabilmente a portare con noi».

Una verità, la sua, fatta di segni, di guazzi colorati, di pagine astratte dalla forte connotazione poetica, dalla straordinaria spontaneità, dai contorni che racchiudono una pianta grassa e un libro o il «Lungomare Viareggio» o, ancora, la tela «Rapallo», risolta con l’inconfondibile leggerezza del suo dettato, mai sconfitto o lacerato dalle sperimentazioni del Novecento, ma attentamente indagato, tra i critici, da Marziano Bernardi, Angelo Dragone, Luigi Carluccio.

Per l’appuntamento al Palazzo Liceo Saracco di Acqui Terme, sono state selezionate una settantina di opere che attestano l’essenza di un dipingere intessuto dalla singolare identità della linea disegnativa, dalla determinante misura espressiva, dalla limpida resa compositiva.

Una linea che partecipa alla definizione della forma, del paesaggio delle Langhe o di Superga, della Gran Madre e del Po d’inverno (che evoca i versi di Giovanni Arpino: «Il bordo della neve gelata sulla banchina/...gli alberi appaiono spogli nella curva del fiume...»), di una finestra sulla natura, che suggerisce una chiave interpretativa di un’arte e di un fare indissolubilmente legato alla cultura visiva del Novecento italiano e non solo. Si assiste a una rilettura della realtà che diviene segnale e riferimento di un cammino in cui «Tutti ricordano, di Paulucci, ha scritto Giulio Carlo Argan, il momento cézanniano e il momento matissiano; e poi lo sviluppo simultaneo intrecciato, di scomposizione cubista e di selezione cromatica fauve e il successivo evolvere di una poetica in cui la scomposizione cubista, più che come architettura spaziale, agiva in funzione dell’isolamento, del dislocamento, della accentuazione e del finale ricomporsi sulla superficie delle durate, dei timbri emozionali del colore. Anche nelle opere più recenti, del ‘60 e del ‘61, la ricerca di base è sempre la ricerca di un ritmo dell’immagine».

Un ritmo, una musicalità, una gestualità certamente determinanti per trasmettere il rapporto con l’ambiente e le strutture architettoniche di Torino, con la romana Piazza del Popolo e il Palazzo Reale di Genova, con le vele sul mare e i porticcioli, gli ulivi della Liguria e il «Paesaggio con casa azzurra».

Nato il 13 ottobre del 1901 a Genova, Paulucci si trasferisce a Torino (città in cui è scomparso nel 1999) e già durante il Liceo rivela l’inclinazione per la pittura. A partire dal 1924, quando era ancora all’Università, espone alle mostre della Promotrice delle Belle Arti al Valentino, mentre avvicinatosi al gruppo futurista presenta nel 1926 tre opere alla «Mostra Futurista» di Torino insieme a Fillia, Dottori e Prampolini.

In particolare, incontra e frequenta artisti come Felice Casorati, Menzio, Chessa, Levi, l’incisore e pittore Cino Bozzetti, Luigi Spazzapan. Dopo il soggiorno parigino del 1928, dove ha conosciuto da vicino la pittura francese e le opere di Picasso, Matisse, Dufy e Braque, Paulucci entra a far parte, alla fine dello stesso anno, del gruppo dei «Sei pittori» di Torino, con Gigi Chessa, Carlo Levi, Francesco Menzio, Nicola Galante e l’inglese Jessie Boswell. Il 12 gennaio 1929, esordio del gruppo alla Sala d’Arte Guglielmi di Torino e, sino al 1931, la loro esperienza viene proposta in mostre a Genova, Milano, Roma, Venezia, Londra e Parigi.

I «Sei di Torino», con il sostegno di Edoardo Persico e Lionello Venturi, hanno rappresentato un periodo ben preciso del rinnovamento dell’arte italiana, contrassegnato da un’impostazione «rigorosa e intransigente» (Carlo Levi); un movimento che «...ebbe, si, una risonanza nazionale notevole e fu, nell’ordine di tempo e per l’Italia, il primo, in un certo senso, di carattere europeo e internazionale» (Enrico Paulucci).

Un movimento studiato, analizzato e celebrato in numerose retrospettive. In occasione della rassegna «I Sei Pittori di Torino 1929-1931», allestita nel 1993 alla Mole Antonelliana, Mirella Bandini ha messo in evidenza che «L’amicizia di Persico e Paulucci era anche basata sul comune interesse e la pratica della nuova architettura: il pittore torinese già dal 1927 recensiva, sull’«Illustrazione del Popolo» le mostre che il «Gruppo 7» di Milano faceva all’estero; fece conoscere su «La Casa Bella» del 1929 i lavori di «Casorati architetto» per il piccolo Teatro di casa Gualino a Torino; e sulla stessa rivista nel 1931 scrisse della progettazione di Nicola Diulgheroff dell’alloggio Jacobacci a Torino».

E da quegli anni la sua attività si identifica con gli inviti alla Biennale Internazionale di Venezia ed alla Quadriennale di Roma, con importanti esposizioni all’estero e alla creazione con Felice Casorati di uno studio per l’arte: «Fu nel 1934 che con l’amico Casorati aprimmo una specie di galleria d’arte, in uno scantinato di Via Barolo, lo studio «Casorati-Paulucci» e qui organizzammo alcune mostre importanti e tenemmo la prima mostra di arte astratta: vi esponevano Ghiringhelli e Reggiani, D’Errico, Veronesi, Bogliardi, Fontana, Licini e Soldati».

Le mostre a Palazzo Bricherasio e al Circolo degli Artisti (incisioni e disegni) di Torino, e a Saluzzo Arte (2009), concorrono ad arricchire il suo iter artistico che nel catalogo della postuma alla Galleria Accademia del 2010 (con opere dal 1920 al 1990), viene ricordato da Ugo Nespolo, suo allievo alla scuola di Pittura dell’Accademia Albertina (di cui fu successivamente Direttore e Presidente): «A me - giovane molto irrequieto - devo dire risultava poco comprensibile l’atteggiamento di Paulucci, di quello di un elegante signore che mi pareva avesse poco da fare con l’idea che avevo dell’artista folle e disperato... A distanza di anni ho compreso meglio la sua figura e la sua posizione... E quei suoi lavori, che all’epoca ci parevano retrò, oggi li trovo estremamente attuali, immersi in quel disincantato cromatico, che si collocano come al di fuori dal tempo in uno spazio dove l’arte gioca con se stessa, dove l’arte davvero pare volersi austeramente isolare in un universo proprio ed esclusivo».

Un cammino costellato di incursioni nelle arti applicate, nella scenografia e nel cinema, nelle cadenze di una determinante adesione al proprio tempo, che emerge dalle lettere agli amici pittori o ripercorrendo gli aspetti del suo mondo attraverso la Collezione di Paola Pitzianti, esposta alla Galleria Del Ponte di Torino nel 2004, e accompagnata da un saggio di Pino Mantovani che parla di una raccolta «straordinaria per estensione e per attenzione, costruita nel tempo come un dialogo serrato sulla vita e sulla pittura, ci consente di mostrare nell’opera la complessità di un lavoro davvero irriducibile a categorie improprie o almeno non esaurienti...è stata privilegiata un’ampia messe di disegni, dalla fine dei Venti fino all’ultima stagione (freschissimi ma anche assai robusti nella impaginazione e nella struttura dell’immagine...)».

Disegni, guazzi, tele, sono elaborati secondo il fluire rapido del segno-colore, dell’incedere della luce tra impressione e narrazione, dalla segreta energia di un dire che emerge e ha il fascino del vento tra gli alberi e rocce e cieli limpidi.

E le barche a Santa Margherita Ligure, i ritratti e le vedute di Bossolasco e ulivi, ombrelloni sulla spiaggia, alberature, fiori, giostre, marine, costituiscono un documento che va oltre alla semplice enunciazione di una felice realizzazione dei soggetti, ma è dettato che prende forma e consistenza con una meditata definizione della raffigurazione, con la sensibilità di una materia con cui fissa le pagine di un lirico astrattismo.

E la tavoletta «Piccolo astratto» e la tela «Astrazioni marine», eseguite negli anni Cinquanta e Sessanta, contribuiscono a definire un alternarsi di piani compositivi capaci di tradurre in una vitale raffigurazione una frase musicale, il silenzio della notte e la sequenza pulsante dei verdi, dei profondi neri, dei rossi, dei bianchi, dei gialli solari. Nulla è affidato al caso, ma tutto è ricondotto alla sostanza di una forma pensata e finemente elaborata, alla suggestione degli oggetti di una quotidianità rivisitata, all’impiego dell’acquarello che - afferma Marco Rosci - in un «artista contemporaneo significa comunque il riconoscersi di fondo, indipendentemente dalla varietà delle scelte formali e delle modulazioni linguistiche, nel grande solco della tradizione di libertà pittorica dell’Impressionismo: e non mi riferisco solo al versante figurativo, da Modigliani a Pascin, da Schiele a Scipione a De Pisis; ma anche all’avanguardia tendente all’astrazione, da Kandinsky a Klee, fino all’informalismo di Wols, di Fautrier, di Bissier....». E proprio Filippo De Pisis, parlando di Paulucci, ha sottolineato il valore della sincerità, della spontaneità, dell’immediatezza: «una sorte di infallibilità meravigliosa».

Accanto alle opere pittoriche, ad Acqui s’incontrano i bozzetti scenici per «Les Malheurs d’Orphée» (1948) di Darius Milhaud e «La favola del figlio cambiato» (1952) di Malipiero-Pirandello, entrambi presentati al Festival Internazionale di Musica Contemporanea a «La Fenice» di Venezia, e quelli per il «Ballo dei Ladri» (1959) di Jean Anhouil, con regia di Gianfranco De Bosio per il Teatro Stabile di Torino, che fanno parte di un recupero e di un approfondimento complessivo della sua opera, ampiamente documentata nella mostra della Regione Piemonte alla «Promotrice» torinese del 1979. Un impegno che rivela, quindi, l’attenzione per le scenografie e i bozzetti teatrali e i film, esposti alla Galleria Roccatre di Torino, nella primavera di quest’anno, che appaiono quali «brani del lungo racconto artistico di Paulucci: un percorso nascosto ma intrigante: quello ossia del palcoscenico, dell’arte che segue le orme dei personaggi, entra nella scena - nota Laura Riccio dell’Archivio Paulucci - dietro le quinte, tra le parole e i dialoghi, sui velluti dei sipari e nelle loro pieghe; nascondiglio di emozioni e applausi».

Al Palazzo Liceo Saracco, Paulucci è l’artefice dell’estate culturale, dello scambio tra passato e presente, del fascino indiscusso del sogno, di un’infanzia ritrovata, di un verso che attraversa il tempo e annuncia spazialità inesplorate di una pittura che non finisce mai di stupire tra incantamenti luminosi e colore, in un continuo legame con la vita:«Se non dipingo non sono!».