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LA LIBERTÀ DEL COLORE

 

Bruno Quaranta

 

 

Avrebbe potuto, Enrico Paulucci, illustrare I promessi sposi? Domandarselo non è ozioso, di fronte alla lapide che ricorda Gonin, a suo tempo, come il nostro artista, inquilino della casa reggimentale in piazza Vittorio Veneto, nell’estrema sua propaggine. E la risposta, va da sé, è no. Perché il romanzo di Don Lisander, come ha insegnato Ezio Raimondi, è «senza idillio». Mentre il marchese delle Roncole ha interpretato la vita alfierianamente, come una «seria filastrocca».

Avrebbe potuto, il patrizio genovese, non specchiarsi in un equoreo catino? E così scelse come studio una fuga di stanze dirimpetto al Po. Se nel mitologico Padre Padus il cavalier Salgàri scorse il Gange, perché lui non scrutarvi il mar Ligure, la Riviera di Levante, stazione Rapallo, a seguire le Cinque Terre del conterraneo Eugenio Montale?

Di là dei vetri, il monte dei Cappuccini, lo sfondo di «Silvana Cenni», ovvero Felice Casorati. Oltre, via Bezzecca, dov’era la villa liberty di Levi, dove il sodale di Carlo di volta in volta assaporava una rara accoglienza borghese: «La madre: un esempio di coraggio, fermezza, equilibrio, virtù affinate dall’abitudine al dolore, un cromosoma ebraico per eccellenza. Il padre: un ometto piccolo, barbetta a punta, religiosissimo, rappresentante di stoffe inglesi. Una famiglia con il culto dell’ospitalità: spesso mi invitavano a pranzo, nei giorni di festa»1.

Enrico Paulucci nacque nel 1901, lo stesso anno di Piero Gobetti, ma, a differenza di Carlo Levi, non manifesterà una vena civile. Più sensibile al richiamo gozzaniano, anche genealogicamente, sua nonna e la madre del Bel Guido cugine. Della voce crepuscolare valuterà i disegni e gli acquerelli raccolti nelle lettere adolescenziali a Ettore Colla: «Rivelano un’orma post infantile, sono gli esercizi di un dilettante artisticamente dignitoso, destinato a eccellere nel verso e nella prosa. Sì, perché ogni “foglio” ha un nitido sfondo letterario, è, a modo suo, un raccontino, una storia illuminata dalla didascalia, un siparietto fra il teatrale e il cinematografico. I due invalidi, ad esempio, ritratti lungo i portici anticipano il passo dolorosamente clownesco di Charlot. Ma sono gli acquerelli le cose migliori di Gozzano “pittore”, uno su tutti: Tramonto in Oriente, dove pulsa, inconsapevole, il desiderio di fare rotta verso la cuna del mondo. Gozzano aveva diciassette anni quando io sono nato, nel settembre del 1901. La prima lettera spedita quel mese a Ettore Colla evoca abitudini, ambienti, atmosfere che non mi abbandonano, che continuano a tenermi compagnia: “Si va sovente in ville di conoscenti”, dove civettano “parecchie tote...”»2.

Genovese a Torino, di Torino Enrico Paulucci sfarinerà il colore che solitamente si attribuisce alla città, il grigio. In sintonia con un confrère quale Mario Soldati, anima indigena, ma dai vent’anni fuori le mura: «Per coloro che vi sono nati, o che vi sono vissuti a lungo e hanno imparato a conoscerla, c’è nel suo stesso nome - Torino - qualcosa di rosso che ride».

Rosso, il pigmento della Mole, come «Il cappotto» che Paulucci dipinse nel 1950. Rosso, un aggettivo che ricorre non di rado nel suo atelier: «Torre rossa», «Ancora rossa», «Allieva con i capelli rossi», «Canalone e cielo rosso»... Il rosso quale ponte fra la Mole e l’Urbe, se solo si ascolti Mario Soldati, che nella stagione romana dopo cena raggiungeva Termini per comperare La Stampa , il trait d’union con la natale capitale subalpina, ammirando il «rosso caldo della stazione che, nella luce dei fanali, era proprio il rosso di Scipione».

C’era anche Scipione, nel 1931, tra i visitatori della mostra di Levi, Menzio, Paulucci lungo il Tevere: «Ricordo Scipione, col suo viso calmo e roseo, che ci veniva a trovare ogni sera, con Mafai, alla galleria di Roma, tenuta allora da Bardi che si era trasferito qui da Milano, e che scrisse un articolo - riepilogherà il marchese pittore -, che indicava nella nostra mostra, e in quella di De Pisis che era stata allestita poco prima, una valida opposizione a certo conformismo che ammantava dell’aggettivo di “sano” il realismo di allora»3. Contro «Novecento», contro il richiamo all’ordine, contro il novecentismo, un idem sentire riecheggiante una lettera del «maggiore» di via Cavour: «E ci potevamo mischiare come le carte dello stesso mazzo»4.

Roma, dove Paulucci si «scoprirà» scenografo. Da Contessa di Parma di Alessandro Blasetti (1937) a, risalendo à rebours, Patatrac (1931), in tandem con Carlo Levi, per la Cines, una storica cura, come non esiterà ad applaudire Casabella: «L’importanza di questo lavoro per la cinematografia italiana può essere capitale, perché per la prima volta fra di noi la messa in scena è stata eseguita con gusto rigorosamente moderno da artisti che hanno una competenza vastissima dei problemi che offre uno spettacolo nuovo».

Sono gli stessi anni in cui l’Emilio Viotti di Mario Soldati è produttore cinematografico nella Capitale, giorno dopo giorno detestando e accarezzando la corruzione, misurando la distanza fra l’opaco Tevere e il «morale» Po, il mondo ideale di Gramsci e Gobetti e Francesco Ruffini.

Paulucci non soffrirà Roma come l’artefice delle Due città. Riconoscendosi, va da sé, nell’istantanea di Vitaliano Brancati: «Roma notturna, con le sue trattorie illuminate di luce rossa, è la città in cui si odia di meno». Perché la sua pittura, come non sfuggirà a Italo Calvino, fu «una proposta di felicità», già custodita, già annunciata, nel phisique, quale rifulge nell’Incendio soldatiano: «Smilzo, elegante, sorridente, simpaticissimo, estremamente giovanile»5.

Soldati - ulteriore distinguo rispetto a Paulucci - versus Felice Casorati. Alla Biennale di Venezia, nel 1928, lo ritrarrà «completamente solo nello squallido atelier neoclassico. Egli mira sorridendo i giovani che qualche anno fa gli erano compagni, limitavano duramente le forme, castigavano i colori nelle uniche gradazioni di un bruno patinato, e chiaro scuravano geometricamente seni, teste, bocce e scatole, ora abbandonarsi con eguale facilità alle fulgenze argentee dei colori, al libero movimento delle masse»6.

Paulucci non mancherà di distinguersi da Casorati, ma evitando ogni crudezza. «Liberazione - spiegherà - avvenuta sotto il segno del rispetto e della deferenza, ma non per questo meno perentoria e viva. Di fatto, per noi, il colore, il libero colore, avrebbe dovuto essere il protagonista assoluto della pittura: i piani essere “ribaltati in superficie” per mezzo di un colore che libero creasse immagini e spazi attraverso rapporti cromatici, in cui il chiaroscuro fosse riassorbito, riassunto nel puro rapporto coloristico, in una sintesi di “forma-colore”»7. La rigidità della formula di via Mazzini, «Numerus mensura pondus», scarruffata dal matissiano: «Luxure, calme, volupté».

Mai verrà meno l’amicizia di Paulucci con Casorati. Nata durante la stagione universitaria «I quadri con le uova mi avevano svelato per primo un nuovo mondo figurativo ormai divenuto classico, ma allora, ricordo, mi colpirono e stimolarono le mie prime creazioni anticonformiste giovani»8, evolutasi in sodalizio «Fu nel 1934 che con l’amico Casorati aprimmo una specie di galleria d’arte, in uno scantinato di via Barolo, lo “Studio Casorati Paulucci” e qui organizzammo alcune mostre importanti, e dove, con Ghiringhelli e Reggiani, si organizzò la prima mostra di arte astratta: vi esponevano, oltre a questi due, D’Errico, Veronesi, Bogliardi, Fontana, Lionni e Soldati»9, fino alla colleganza accademica, all’Albertina.

«Di fatto, per noi, il colore, il libero colore... ». «Noi», ovvero i Sei di Torino. Jessie Boswell, Gigi Chessa, Carlo Levi, Francesco Menzio, Nicola Galante, Enrico Paulucci, Paulucci (1901) e Levi (1902) i più giovani, «sensibilissimi - rammenterà il marchese delle Roncole - ai richiami transalpini, aperti a una sorta di post-impressionismo e di fauvismo»10.

Un’«avventura» nel nome di Cézanne. Sarà «Lionello Venturi a parlarci per primo in Italia dell’Impressionismo e di Cézanne» svelerà Enrico Paulucci. Figlio di Adolfo, come il padre docente di Storia dell’arte, in cattedra a Torino dal 1915 al 1931, il consulente artistico di Riccardo Gualino dovrà lasciare l’Università e il Paese non avendo prestato giuramento di fedeltà al fascismo.

In una lettera del Maestro di « La Montagne Sainte-Victoire » è il manifesto dei Sei, di Paulucci in particolare. Là dove si pone l’accento sul contatto con la natura attraverso la sensazione del colore. «Io sono molto esplicito: - una impressione ottica è ricevuta dal nostro organo visivo che ci permette di classificare come luce, mezzo tono o quarto di tono, le superfici rappresentate dalle sensazioni del colore»11.

Il colore magari meditato da Paulucci nei vis-à-vis con Felice Casorati, muovendo da Platone. La figura che si accompagna sempre al colore, in Menone, come è chiarificata nella seconda definizione di Socrate: «Nel caso di ogni figura dico che figura è ciò in cui termina il solido; in breve, direi che figura è il limite di un solido» (il platonismo in uniforme del Maestro di via Mazzini). E il colore che è «un effluvio di figure commisurato alla vista e percepibile» (il platonismo non in uniforme dell’interlocutore). Si mettano a confronto, per esempio, la figura-colore («Gli scolari», 1927-1928) e il colore-figura («L’ammalata», 1930).

Manet non meno di Cézanne. «...all’ombra, come ci eravamo messi un po’ alla svelta, di una discutibile bandiera di Manet, ma in effetti aperti a una specie di post-impressionismo e di fauvismo» storicizzerà Paulucci12. Un atto di modestia a posteriori (era il 1956), equilibrato dall’entusiasmo di Edoardo Persico verso i Sei nel loro manifestarsi: «È impossibile immaginare a Torino un movimento di pittura moderna senza pensare a Jessie Boswell, a Gigi Chessa, a Nicola Galante, a Carlo Levi, a Francesco Menzio, a Enrico Paulucci. Cioè ai sei pittori che hanno levato, l’altro ieri, l’insegna di Manet. [...] Noi chiameremo, perciò, europei questi pittori, che nel campo delle arti figurative si possono assegnare alla corrente di idee promosse da Lionello Venturi per un gusto moderno»13.

Gusto, una parola così cruciale nel lessico dei Sei. Di sicura ascendenza venturiana Il gusto dei primitivi, un antidoto contro qualsivoglia richiamo all’ordine. Paulucci ritrarrà non a caso i Sei come «un movimento di civiltà e di educazione, diciamo anche di gusto; non abbiamo pretese maggiori e d’altronde ciascuno di noi ha realizzato la propria personalità per vie diverse»14.

Eclettico, inafferrabile, geniale intellettuale napoletano, Edoardo Persico, gobettiano, razionalista in architettura, una morte misteriosa. Con Venturi, l’ulteriore Virgilio dei Sei. Lo racconterà Enrico Paulucci: «Uomo singolarissimo, quasi un uomo segreto, poverissimo e di una moralità e un orgoglio grandissimi; capace di comperare con le ultime lire una nuova bombetta marrone (il ritratto di Carlo Levi «Edoardo Persico che legge», ndr) e tornarsene in carrozza e digiuno nella sua squallida stanza gelida del Lingotto, si spendeva tutto in una sua presenza pungente e penetrante, in una generosa parola non scritta ma che tutti ricordiamo...[...]. Con questo amico napoletano si chiacchierava e si discuteva notti intere...»15. Come nell’Orologio, il romanzo «azionista» di Carlo Levi: «... mi pareva di essere altrove, nell’antica e unica città dell’adolescenza, a Torino, dove le idee e l’amicizia sono dei beni esaltanti, e i corsi alberati sono così lunghi e vasti, che le parole pare vi possano correre, e allargarsi senza inciampi»16.

I Sei debuttano a Torino, sala d’arte Guglielmi, nel gennaio del 1929. Sono quindi a Genova, «festeggiati dagli amici genovesi, che erano Adriano Grande e Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale e altri giovani pittori. Memorabili sere di confidenze e passeggiate notturne indimenticabili sull’alto del Porto!»17. Quindi alla galleria Bardi di Milano. E alla Biennale di Venezia. E, in formazione ristretta, alla Bloomsbury Gallery in Londra e alla Jeune Europe di Parigi. Il passo d’addio, nell’ambrosiana galleria Il Milione, in tandem Paulucci e Levi (ironia della sorte: le scintille da cui scaturì il Gruppo), esponendo monotipi e guazzi.

È il rompete le righe.

Gli Anni Trenta, l’amicizia con Argan, il Centro delle Arti (da Rosai a Manzù, da Maccari a Longanesi), la cattedra di pittura, per chiara fama, all’Albertina, la guerra, tra crolli e incendi, il rifugio di Rapallo, una fedeltà rinnovata: «Qui ripresi il lavoro, e son di quel tempo tutta una serie di figure, paesi e nature morte in cui un impianto vagamente cezanniano mi era suggerito anche dalla scoperta di certe vallette liguri simili a quelle dove dipinse il maestro di Aix»18.

Cézanne, il capofila, e dintorni. Nell’immediato dopoguerra, a risaltare, il «gemellaggio» con Dufy, di barca in barca, «Le barche» alla Bussola presentate da Luigi Carluccio. Il critico optimus di «Le muse inquietanti» morto a San Paolo del Brasile nel 1981, da Enrico Paulucci subito rimpianto: «La scomparsa di Carluccio, se è una perdita grave per la vita culturale non solo italiana, anche più lo è per gli artisti torinesi che avevano nella sua assidua presenza e testimonianza uno dei fili, e non sono poi tanti, a portar lontano notizie delle loro speranze, del loro lavoro»19.

Dufy nelle «Barche» o le «Barche» dopo Dufy? Come riteneva Italo Cremona, artefice sulla pagina e sulla tela di «armi improprie»: «Ci volle poi quell’ira di Dio della guerra a fargli mettere la sordina al suo canto, a bruciargli i colori, a contorcergli il segno, sì da far dire il nome di Van Gogh», invece di quelli di Manet e Dufy e Matisse, tirerà le fila Massimo Mila20.

Le barche sognate vedendo scivolare sul Po i barconi pavesiani. «I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti, / quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente. / È già quasi la notte. Isolati si fermano: / si dibatte e sussulta la vanga sott’acqua». Il Po torinese che folgora Mattia Pascal: «... presso al ponte che ritiene per una pescaja l’impeto delle acque che vi fremono irose: l’aria era d’una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza...». A permeare il «Pescatore nel Po» di Paulucci.

Pirandello (Pirandello-Malipiero), che il Maestro accosterà realizzando le scenografie di La Favola del Figlio Cambiato, La Fenice, 1952, per la regia di Giorgio Strehler. Non l’unica orma teatrale. Il catalogo non è vasto, ma pregiato: da Il Mondo della Noia di Pailleron a Les Malheurs d’Orphée di Darius Milhaud, regia di Millos.

Negli Anni Cinquanta, la vicenda di Enrico Paulucci sarà «letta» da Albino Galvano: «... il felicissimo estro cromatico di un tempo, la leggerezza e spigliatezza di tocco, giocata tra improvvisazione e lirica, si è oggi trasformata in un’intensità agra e accesa da campiture cromatiche, che, figurative, strizzano, con spirito e cordialità, l’occhio all’astrattismo»21.

Nella stagione di Francesco Arcangeli, dell’«ultimo naturalismo», per contrasto risalta maggiormente l’idea di natura in Paulucci. Non - come la interpretava il bolognese allievo di Longhi - «la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la sentite vivere tremando fuori, entro di voi». Ma la natura di respiro gozzaniano, così intonata al familiare del Bel Guido. Non la natura leopardianamente (Leopardi, a cui pure, in Torino, il poeta pensa: «Pensa Giacomo fanciullo / e la “siepe” e il “natío borgo selvaggio”»). Ma la Natura che «non è sorda e muta», che «parla del suo fine benigno... / nata da sé medesima, assoluta, una verità non convenuta, / dinnanzi a lei s’arresta il mio sogghigno». Chi supino nel trifoglio, chi nel mare (ligure o color del vino langarolo).

Mai ostaggio del «male di vivere». Artefice, Paulucci, di una ininterrotta festa mobile, al lume di un’estetica aperta, insofferente dei gioghi, supremamente refrattaria agli «ismi», alle gabbie che sono. Nel 1958, sul Verri - vi si soffermerà Albino Galvano - precisava: «... vorrei ricordare a chi ci rimprovera che la nostra esperienza (i Sei, ndr) non fosse rivolta a termini più estremi, futurismo, appunto, o cubismo, o forme astratte, che attorno al 1928, 29, 30 questi movimenti erano stati scavalcati da altre cose; Picasso ne era uscito e faceva altre esperienze, Matisse dipingeva i suoi interni e le sue figure, Braque era l’unico a continuare una certa forma cubista ma l’aria di Parigi, che era allora veramente Parigi, era già cambiata...»22.

Marco Rosci identificò nella «Camera del Cornomanno» (1947) «il momento maggiore del neopicassismo» in Paulucci. Come Braque, per esempio il Braque degli «Uccelli su fondo blu», si riverbererà nelle vele, nei loro giocosi caroselli, e nei gabbiani. Come Matisse (la visita nel 1952 a Nizza, con Casorati, Sartoris, Lattes e Carluccio) fungerà da argine, da memento, indicando in Cézanne la salvezza «dall’astrazione pura e dal rischio di inaridirsi in essa implicito»23.

L’astratto che smemora il figurativo? «Molti si chiedono - rifletteva Giulio Carlo Argan nel 1962 - se la pittura di Paulucci sia ancora figurativa benché gli oggetti non siano più riconoscibili; e come mai i valori rimangano gli stessi, o appartengano ancora allo stesso ordine, benché il valore dell’oggetto sia andato via via diminuendo fino a scomparire. La risposta è troppo facile: perché il valore che interessa Paulucci non è il valore dell’oggetto e perché una pittura può essere apertamente figurativa anche dopo l’eliminazione dell’oggetto»24.

In Paulucci è la metamorfosi, non la dissoluzione delle cose. E forse gli è estranea la querelle astratto-figurativo, lui che pure rammentava di aver iniziato con Argan, finita la guerra, «la polemica astrattismo-realismo socialista». Forse è «al di là», come l’«angelo disperato» Nicolas de Staël, l’inventore di «Grands footballeurs» (footballeur lo stesso marchese delle Roncole, portiere della Juventus, anni Venti). Dai Sessanta al 1999, alla scomparsa, Enrico Paulucci è un’inesausta immersione nel colore (nel «versicolore» poeterebbe Montale), è un rabdomante e vessillifero di luce, il testimone pittorico dell’abbraccio splendido che è, che sa essere, che può essere la vita, non ignaro, anzi, dell’abbraccio funesto. La libertà del colore, il colore che è la protoforma.

Mai scordando, anzi, ritrovando le origini, il tempo dei Sei, che diverse mostre «restaureranno», avanzando Paulucci verso l’ultima tavolozza. Serenamente: «Penso di aver vissuto e di vivere in un tempo veramente straordinario; la mia generazione, come quella che mi ha preceduto, è stata coinvolta in una crisi profonda, rapida, in una civiltà di rottura assai violenta e assai difficile, scomoda e angosciosa: ma appunto per questo, anche se abbiamo assistito al tramonto di miti, di cultura e di civiltà che ci erano care e che ci hanno formati, e che forse abbiamo contribuito a distruggere, anche se amaramente pagando; ma appunto per questo, dicevo, degna di essere vissuta e sofferta»25.

 

 

Note

 

1) b. q. «Paulucci: la nostra via alla libertà», La Stampa 14 aprile 1991

 

2) Bruno Quaranta, «Siparietti alla Charlot, ogni foglio un racconto», La Stampa, 30 aprile 1993

 

3) «Paulucci», Regione Piemonte, 1979, a cura di Marco Rosci, p. 45

 

4) Scipione, «Carte segrete», Einaudi, 1982

 

5) Mario Soldati, «L’incendio», Mondadori, p. 127

 

6) Mario Soldati, «I neoromantici», La Stampa , 4 settembre 1928

 

7) «Paulucci», op. cit., p. 43

 

8) «Omaggio a Paulucci», Electa 1996, a cura di Mirella Bandini, p. 39

 

9) Ibidem, p. 40

 

10) «Paulucci: la nostra via alla libertà», cit.

 

11) Lionello Venturi, «Come si comprende la pittura», Einaudi 1975, p. 173

 

12) «Paulucci», op. cit., p. 43

 

13) Edoardo Persico, «Destino e modernità», Medusa 2001, p. 41 e p. 43

 

14) «Paulucci», op. cit., p. 42

 

15) Ibidem, p. 43

 

16) Carlo Levi, «L’orologio», Einaudi 1974, p. 157

 

17) «Paulucci», op. cit., p. 45

 

18) Ibidem, p. 30

 

19) «Piemontevivo», n. 1, 1982, p. 22

 

20) «Piemontevivo», n. 1, 1983, p. 23

 

21) Albino Galvano, «La pittura, lo spirito e il sangue», Il Quadrante Edizioni, 1988, p. 142

 

22) Ibidem, p. 142

 

23) Henri Matisse, «Scritti e pensieri sull’arte», Einaudi 1988, p. 321

 

24) «Paulucci», op. cit., p. 123

 

25) Ibidem, p. 30