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SAGGIO CRITICO

 

Giulio Carlo Argan

 

 

Come si fa a parlare di Enrico Paulucci e non ribattere il solito tasto di quella che Calvino chiama la «proposta di felicità», continuamente, generosamente ripetuta nella sua pittura? Proprio Calvino ci avverte che la cordialità, la schiettezza saranno anche, ma non soltanto, belle doti di natura; non sono, in ogni caso, inviti alla leggerezza e all’irresponsabilità: «non è un discorso d’evasione, è un battere il chiodo secondo per secondo senza smettere mai: se la vita può essere così in un suo momento perché non può essere così in ogni caso?». Si può essere felici ed esortare ad esserlo, senza avere la testa nelle nuvole e non sapere in che mondo si vive; si può esortare alla felicità, ch’è anche una virtù, senza mettersi in contraddizione con la situazione storica, senza scappare, senza tradire. Paulucci sa, come tutti, che la condizione storica presente non è delle più allegre, che tutto congiura per impedire agli uomini la spontaneità, la schiettezza, la felicità di vedere le cose senza trarne auspici nefasti, anzi con quel palpito d’emozione, quel piacere della sorpresa che la sua pittura s’ostina a dimostrare possibile, malgrado la condizione storica. Sa anche quanto la pittura moderna abbia assorbito ed espresso, dell’angoscia e del terrore del mondo moderno: aiutando tuttavia gli uomini a farsi una coscienza, a non accettare passivamente un destino da non si sa chi decretato, a reagire. Se Paulucci cerca segni contrari a quelli diventati ormai emblematici dell’angoscia e della disperazione storiche, li cerca pur sempre nella storia della pittura moderna: si chiede che cosa significhino, se siano davvero fantasie senza costrutto, i messaggi di un Matisse, di un Dufy, perfino di un Mirò, accanto al dramma storico di un Picasso, alla tragedia degli Espressionisti, all’arte della rivolta e della negazione del mondo. Poichè questi segni ci sono e nessuno potrebbe contestare che siano i segni di altrettanti valori, non è forse legittimo chiedersi se sia possibile essere uomini moderni, vivere pulitamente nel proprio tempo, senza essere necessariamente le vittime spiranti o i martoriati ribelli della situazione storica? La pittura di Paulucci, benché sembri sgorgata di getto, non è senza storia né senza problemi: è passata attraverso tutte le esperienze, per amare e pericolose che fossero, del nostro tempo. Se la regione in cui, da ormai più di trent’anni, si snoda il suo corso è quella della cultura figurativa francese dall’Impressionismo in poi, si tratta pure di una scelta storica, il cui motivo era già manifesto quando, col gruppo torinese dei Sei (nato nel giro d’idee di Gobetti, di Persico) si mise contro la corrente ufficiale del Novecento: per un’esigenza di libertà che non ha più cessato di valere. Sono certamente mutate le condizioni in cui quella esigenza ha un valore, e dunque i modi del suo affermarsi; ma oggi, come allora, non v’è felicità senza libertà, e la libertà non ce la regala nessuno, bisogna conquistarla, ed è sempre più difficile.

Molti si chiedono se la pittura di Paulucci sia ancora figurativa benché gli oggetti non siano più riconoscibili; e come mai i valori rimangano gli stessi, o appartengano ancora allo stesso ordine, benché il valore dell’oggetto sia andato via via diminuendo fino a scomparire. La risposta è troppo facile: perché il valore che interessa Paulucci non è il valore dell’oggetto e perché una pittura può essere apertamente figurativa anche dopo l’eliminazione dell’oggetto. La fiducia di Paulucci, dunque, non è fiducia nell’assoluta consistenza, realtà, validità dell’oggetto; ma nella forza del suono, del timbro, dell’accento della parola che designa l’oggetto e che seguita ad essere parola umana anche quando non c’è più l’oggetto: la sua pittura è ancora e certamente rimarrà figurativa perché è e certamente rimarrà una pittura di linguaggio, preoccupata soprattutto di stabilire una comunicazione umana, di rompere il grigio della solitudine, d’indicare certe condizioni, le migliori possibili, di coesistenza. Se cose che non dovrebbero fare problema diventano nella situazione attuale del mondo problemi da risolvere, non c’è che da affrontarli: ma mirando sempre a ristabilire quella condizione ideale di spontaneità e di felicità che dovrebbe presiedere alla coesistenza e alla relazione degli uomini nel mondo. Così la pittura di Paulucci ha deluso quanti, troppo presto credendo alla sua «spontaneità» o al suo essere «ovviamente» spontanea, cercavano in essa un appoggio nella guerra santa contro tutti gli «ismi», come sospetti veicoli d’intelligenza. Invece Paulucci s’è fatto un dovere di sperimentarli tutti, o quasi, non già per impugnare una bandiera e battersi per o contro i loro contenuti e i loro assunti ideologici, ma perché erano comunque modi di comunicazione umana, proposte di nuove strutture di linguaggio, fatte per dire cose nuove. Non c’è zotico peggiore di chi fa orecchie di mercante: e invece la civiltà consiste nell’intendere tutti i linguaggi, nel non essere stranieri in nessuna parte del mondo.

Il problema del linguaggio, e qui appunto emerge la sua coltivata esperienza delle poetiche francesi, è meno una questione di etimologie, di simboli, di segni, di strutture grammaticali e sintattiche che d’accenti, di flessioni, d’improvvisazioni, di timbri, di voce: un linguaggio, insomma, elaborato insieme dalla parlata viva e dalla poesia. Tutti ricordano, di Paulucci, il momento cézanniano e il momento matissiano; e poi lo sviluppo simultaneo, intrecciato, di scomposizione cubista e di selezione cromatica fauve, e il successivo evolvere di una poetica in cui la scomposizione cubista, più che come architettura spaziale, agiva in funzione dell’isolamento, del dislocamento, dell’accentuazione e del finale ricomporsi sulla superficie delle durate, dei timbri emozionali del colore. Anche nelle opere più recenti, del ’60 e del ‘61, la ricerca di base è sempre la ricerca di un ritmo dell’immagine: a vortici e cavalloni in Ondoso, a orizzontali e verticali in Dispersive, a irradiazione in Composizione blu. Ma non c’è mai schema, la trama non è mai premessa al colore, le distanze e le direzioni sono misurate dall’intensità, dalla durata, dalla risonanza dei timbri, poiché la purezza e la sonorità di un timbro, la sua possibilità di comunicare intatta un’emozione, dipendono proprio dal suo posto, dalla sua durata, dalla sua forma nel contesto. Infatti all’origine è sempre un’emozione: ma questa non viene decomposta e analizzata in un discorso logico e sintattico, bensì decantata ed eccitata, finché di essa non rimane che uno stato di entusiasmo o fervore ed il suo ritmo è il ritmo stesso della esistenza. E’ soltanto a questo livello, quando l’emozione non è più in contatto con le sue cause oggettive, né ha più bisogno di giustificare coi fatti il suo valore d’impulso, ch’essa può farsi comunicazione e discorso. Né ha più importanza sapere che cosa, di fatto, comunichi, se la naturalità del mondo oggettivo o quella dell’essere umano: è soltanto più la prova di un essere vivi, e vivi attraverso la comunicazione diretta col mondo e con gli altri.