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IL TEMPO PER DUE PAROLE

 

Laura Riccio

 

 

Il sole riscaldava il cuore e i pensieri, in una giornata di quella Roma così lontana da stentarne quasi il ricordo, oggi.

I miei dieci anni compiuti, mi facevano trastullare con cose semplici: un piccolo gelato fatto di ghiaccio tritato, il «Corrierino dei piccoli», da leggere la domenica, le scarpine bianche corrette con il gesso (così si nascondevano i brutti segni neri sulle punte).

Un mondo davvero indimenticabile a pensarci: desiderio di una società nuova, di rinascita, di onestà...

Erano gli anni Cinquanta.

Fresco il ricordo della guerra, le sue drammatiche conseguenze… le case squarciate, le pareti colorate da stinte sfumature, il peso del dolore. Le donne parlavano delle pensioni di guerra che non arrivavano mai, dei figli morti ed il marito invalido, magari per via delle schegge delle granate che lo avevano colpito mentre raccoglieva le cicorie nei campi e gli aerei sfioravano la terra sulla via Tiburtina.

Davanti alla Galleria d’Arte Moderna, a Valle Giulia, mio padre stava parlando con un signore dalla lunga barba bianca, trasparente, e una austerità da filosofo greco: anno esatto,1952!

«E’ il tempo che manca. Se si potesse comprare il tempo di chi lo perde!»

Quel signore era Pietro Canonica e queste sue parole le ricordo durante il cammino della mia vita.

Ma il tempo sfuggiva a Scipione quando si confidava con Mafai: «…io, Mario, vorrei fare tante cose: ma farò in tempo? Io ho la vita breve…».

La vita di Enrico Paulucci è stata invece lunga e generosa: «…la vita mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto…», diceva, in una sua ultima intervista con Lorenzo Ventavoli.

Quasi le parole parafrasate della canzone di Violetta Parra, con la voce struggente di Amalia Rodrigues. «Gracias a la vida, que me ha dado tanto, me ha dado la risa y me ha dado el llanto…».

Organizzava i giorni e le ore, Paulucci, con metodica cadenza, mai un lamento di stanchezza, un discorso di malinconia esistenziale, un dubbio: il suo era un lavoro continuo e il tempo che usava era di sua proprietà e solo lui ne era il custode.

Il cammino quotidiano era quello dalla casa in Via Cavour, dove viveva con una assuefazione familiare leggera, poi allo studio, dove lo attendevano centinaia di piccoli disegni, bozzetti, colori e pennelli infilati, insieme ad un mazzo di rose rinsecchite, in un vaso blu Napoleone terzo. Una passeggiata che lo allietava e lo distraeva, poi, fermandosi ogni tanto dal suo colorificio vicino a Piazza Carlina o dal giornalaio sotto i portici di Piazza Vittorio.

Un divano di piccola dimensione con una lunga coperta orientale sosteneva, come un grande cavalletto, i «trenta-quaranta», i «cinquanta-sessanta» ed anche piccolissime tele «diciotto per venti».

Li chiamava così i suoi quadri; un modo un po’ dissacratorio, con leggerezza appunto, come con leggerezza era uscito, oltre novantenne, dalla camera operatoria dell’Ospedale San Martino di Genova: l’amputazione per lui, malgrado tutto, era ancora un modo per fermare il tempo.

Per andare avanti a dipingere, giorno dopo giorno: il mare della sua Liguria, di Rapallo, di Zoagli, di Santa Margherita. Anche la carrozzella, sulla quale trascorse poi gli ultimi anni, dolorosi e faticosi, non influenzava le sue giornate e il desiderio di vivere  tra i suoi colori, unici veri amici, era così forte da scandire il tempo con parsimonia doviziosa e intelligente!

Parlava di Soldati, bisbigliando un po’ dispettoso… «ma… è vero che non è più tanto presente… con la memoria? Mah… Fino a qualche anno fa mi telefonava ancora… ed è più giovane di me… anche Bobbio, l’ultima volta, non ho capito molto cosa mi diceva…».

Portava sempre lo stesso abito: d’inverno la giacca a quadretti di lana pesante, il cappello beige un po’ sdrucito, d’estate pantaloni più leggeri, camicia azzurra e il cappello di paglia bianco panna: «vedi che bel cappello? E’un Panama autentico... roba da re…».

Il pensiero al passato era rivolto a sua mamma, alla sorella che era stata ed era ancora molto vivace e poi solo alla pittura; i vari periodi, le mostre in Italia e all’estero, le opere in giro per il mondo, dove i suoi «figli» vivevano nei musei di San Pietroburgo, Tel Aviv, a Londra e a San Paolo.

Parlava anche di Carlo, Carlo Levi, della sorella che abitava in via della Rocca, piccolina, ma con una grande personalità, semplice come il fratello e a lui molto vicina.

Per la moglie riservava solo elogi per la signorilità e la dedizione al lavoro: era biologa ed era amata dagli allievi di tutte le età.

Nelle tele «grandi» (allora non parlava più di misure…), esponendole, sembrava quasi si nascondesse dentro loro, ne era fiero: i cieli a turbine, rosso fuoco, con grandi nubi gialle, arrotolate, oppure feroci come sciabolate, erano sempre nel suo cuore. Il periodo astratto, «Astratto-Concreto», come gli piaceva definirlo, proprio per quel suo conservare l’amore per il vero, per gli elementi dell’universo.

«Il pittore delle vele, delle barche…» si diceva, perché era più facile capire e capirlo, ma la sua anima vera, il suo sentimento di profondo rispetto, lo si può riscontrare nelle figure femminili, nelle loro pose composte e sottomesse: «La ragazza con le maschere», le gambe raccolte a sorreggere le facce grottesche ove specchiare i propri turbamenti, «Le Lavandaie», i panni bianchi al sole come velabri per nascondere una doppia esistenza: come Giano bifronte, imperscrutabile, immerso in una campagna brulla e forte, con le loro braccia alzate verso il cielo quasi a contrastare il vento.

Gli anni sono passati e tanti. Ora riposa tra i verdi e le terre bruciate del Monferrato, il blu e l’azzurro del mare e della terra ligure sono nel ricordo della sua gran voglia di vivere.

Ha centellinato il tempo, risparmiandolo per dedicarlo all’Arte e al grande amore che regalava a Lei.

Ha chiuso i battenti dello studio, lasciando sul cavalletto un «cinquanta-sessanta»: una marina dal cielo verde, il mare rosso e le vele bianche, quasi lame, spicchi di vento per fendere il tempo del suo lungo viaggio.